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OPERA-CARRIERA
Se dovessi sintetizzare in una formula ciò che costituisce e muove la mia pratica, non avrei dubbi nel descriverla come un’ossessionata ricerca del “fare della propria carriera un’opera d’arte”.
Non un prevedibile e dolciastro “fare della propria vita un’opera d’arte” né un “essere un’opera d’arte”, ma tentare di sanzionare come artistici il percorso e la strategia (o la non-strategia) alla base di una carriera nel mondo dell’arte.
Gli artisti oggi, a mio parere, sono soprattutto produttori di carriere. La vera Opera, il grande disegno, rimane sullo sfondo celata dal velo di Maya del discorso, della pratica e del brand grazie ai quali questi artisti riescono a imporsi nell’immaginario collettivo.
Non realizzano opere, o meglio, realizzano opere come tattiche, tasselli di un mosaico più ampio. Ogni opera-tattica tradizionalmente intesa, finita e limitata, risulta insoddisfacente riuscendo a esprimere solo in modo parziale ciò che è invece la visione totalizzante dell’opera-carriera, a cui comunque sineddoticamente rimanda.
Schopenhauerianamente, se ognuno di noi non fa altro per tutta la vita che sviluppare una sola idea o scrivere un unico libro, allo stesso modo non facciamo altro che progettare un’unica mostra e realizzare un’unica opera: appunto, l’opera-carriera.
META
Molti artisti appartengono alla categoria dei “Re Mida”: tutto quello che toccano diventa oro. Io purtroppo non appartengo a questa fortunata specie, ma mi impegno nel trasformare tutto quello che tocco in “meta”, meta-discorso, meta-linguaggio, meta-narrazione.
Da Re Mida a Re Meta è un attimo.
Mi interessa un’idea di arte come “arte che pensa se stessa”, all’interno di un sistema che è a sua volta un circolo di circoli: è proprio quest’ultimo – con le sue isterie, contraddizione e rituali – l’oggetto sociale per me più tossico e affascinante.
Il sistema dell’arte è l’opera.
Probabilmente – seguendo una vecchia querelle sulla differenza tra l’essere e il fare – non sono un artista, ma faccio l’artista.
Soltanto che il mio è un “fare-il-fare”, un continuo simulare la simulazione, un doppiare me stesso e le tappe obbligate di un percorso artistico stereotipato.
Chi lo sa che alla lunga, a furia di fare, io non lo diventi pure.
Se l’arte ha a che fare con le ossessioni, ho fatto di ciò che incornicia l’arte come tale la mia ossessione.
SUPERCAZZOLA
La questione irrisolta dell’arte come sistema, l’analisi e lo studio delle logiche che caratterizzano l’infrastruttura sociale del mondo dell’arte e la de-costruzione dei suoi meccanismi — attraverso uno sguardo ironico e disincantato — sono gli elementi costitutivi di una pratica che, servendosi dei dispositivi visivi più eterogenei (dall’installazione ai meme, dal merchandising ai new media), ne giustifica l’apparente pretesa di autoreferenzialità e l’attitudine sarcastica, fintamente disimpegnata.
È ciò che incornicia socialmente l’arte — con le sue isterie, contraddizione e rituali — a interessare ossessivamente il mio lavoro.
Una condizione di ostinata e maniacale attenzione verso la ricerca di informazioni, notizie e storie — anche le più mondane, prossime al gossip — che alimentano e segnano il contesto in cui i principali attori e addetti ai lavori si muovono, determina una serie di focus entro i quali il mio percorso si può inscrivere: l’indagine sul funzionamento dei processi selettivi e decisionali dei circuiti di valorizzazione; la condizione del giovane artista, la simulazione della sua carriera quale concatenazione di tappe obbligate che convergono verso la legittimazione istituzionale; la continua osservazione ed esplorazione della dimensione socioculturale e socioeconomica dell’arte e dei suoi protagonisti; l’approfondimento delle pratiche digitali, delle modalità e delle strategie comunicative.
Mi interessa inoltre, tramite la messinscena di un’attitudine performativamente ironica, comica e buffonesca — già storicamente congenita nell’arte e nella cultura italiana —, la teorizzazione di un anacronistico recupero di quella sorta di “esotismo” nostrano, catalizzazione delle stereotipie dell’italianità nella produzione artistica. Quindi rintracciarne la natura arcaica, folkloristica e ontologica nelle figure dell’intrattenitore-saltimbanco, nelle maschere/icone della Commedia dell’arte e negli esponenti del XX secolo che vanno a comporre quella cosmologia tra il sublime e l’idiota, dove all’enfant terrible di turno — attraverso sberleffi, sketch e strafottenze — è ancora concesso dire “il re è nudo!”.